Frantz Fanon

Written by Franco Romanò. Posted in Archivio seminari

anfiteatro

Sintesi del seminario di sabato 26 ottobre 2013

Relazione di Franco Romanò

Frantz Fanon fa parte di un nutrito gruppo di grandi intellettuali militanti e addirittura leader politici, provenienti, con pochissime eccezioni, da quello che allora negli anni ’60 si definiva Terzo Mondo e che hanno influenzato un’intera generazione di protagonisti delle lotte di liberazione e decolonizzazione in tutti i continenti, ma che hanno nutrito anche le lotte, gli ideali, le aspettative dei giovani occidentali che, più o meno negli stessi anni, mettevano in discussione l’assetto capitalistico e autoritario delle società occidentali.

Gunter Frank, Samir Amin, Franz Fanon, il Che, Malcolm X, Leopold Sedar Senghor, Steve Biko, Stokely Carmichael, Bobby Seale e più tardi Nelson Mandela, ma ne dimentico sicuramente altri. Forse, a

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pensarci bene, si tratta della prima generazione di intellettuali non occidentali (anche se molti di loro avevano studiato in Europa), che ha avuto un

ruolo e un’influenza a livello mondiale. Infatti, in precedenza, non sono mancati leader di prestigio (Gandhi per esempio o anche Du Bois nei primi decenni del ventesimo secolo e Du Bois), che esercitavano un fascino anche a Occidente, oppure come nel caso di Du Bois una grande influenza negli Usa, verso la popolazione nera, ma non era mai accaduta una globalizzazione così vasta e positiva, che trovasse un ascolto e interlocutori che ne colsero subito l’importanza e non solo come fascinazione superficiale. Lo stesso Gandhi fu più ammirato che seguito in occidente; se mai è oggi, con la rilettura del suo pensiero da parte di Vandana Shiva, che Gandhi rivive in occidente con ben altra considerazione.

L’opera più conosciuta di Fanon, I dannati della terra, che fu concepita come un manifesto per la lotta anti coloniale, venne pubblicata per la prima volta nel 1961 da François Maspero, con la prefazione di Jean Paul Sartre. Nel libro Fanon analizza il ruolo della classe, razza e violenza nell’ambito delle lotte di liberazione nazionale dei popoli africani e non solo; auspica l’avvento di un nuovo modello mondiale, totalmente svincolato dai modelli politico-sociali precedenti, realizzabile tramite una rivoluzione globale (c’è un richiamo evidente con il trotzkismo) che innanzitutto formi una classe sociale svincolata dall’influenza e dai “benefici” degli imperialisti.

Sarebbe facile osservare che il processo di decolonizzazione e di liberazione dei popoli, ha subito più di una battuta d’arresto, che ci sono addirittura processi di neo colonizzazione in atto e che il contesto in cui nacque la Conferenza dei paesi non allineati (che fu una delle grandi invenzioni di questi intellettuali e di leader politici come Nehru, Tito, Ben Bella), non esiste più. In realtà, poi, le cose non stanno affatto così, come cercherò di dire, neppure sul piano strettamente politico, quello che più mi preme è andare a cercare nel pensiero di Fanon ciò che è attualissimo oggi. Perché vorrei dire subito che non siamo qui a commemorare un grande intellettuale del passato, ma un uomo che ha avuto delle intuizioni e una lungimiranza che sono quanto mai preziose per orientarci oggi. E allora vorrei lasciare un po’ sullo sfondo gli aspetti più legati alla lotta anti coloniale (compresa la questione della violenza che suscitò molte polemiche, fra cui una durissima e del tutto fuori luogo da parte di Hanna Arendt) per come essa si svolgeva e fu anche vincente in quegli anni, per soffermarmi proprio su questi aspetti. Mi avvarrò non solo del libro più noto di Fanon ma anche di una raccolta di saggi ripubblicata due anni fa da Ombre corte e che raccoglie i suoi scritti sulla psichiatria coloniale. Naturalmente, me ne avvarrò da un punto di vista non strettamente psichiatrico, ma politico e culturale, anche se va detto (e su questo torno in modo più circostanziato successivamente), che Fanon non può essere compreso scindendo la sua figura di medico e psichiatra da quella di militante politico.

fanonPrima questione. Ne I dannati della terra Fanon ha un approccio alle lotte di liberazione che tiene insieme questioni di classe e razza. Sembra poco e invece è moltissimo perché si affaccia per la prima volta, nel pensiero di un rivoluzionario radicale, l’idea che un approccio soltanto classista al problema dell’oppressione e dello sfruttamento imperialista non sia più sufficiente. Inoltre, Fanon riteneva che il movimento operaio dei paesi occidentali avesse perso la sua forza radicale di trasformazione ma fosse sostanzialmente integrato nel sistema coloniale. Questa fu una delle ragioni per cui il suo pensiero fu osteggiato, oppure accolto in modo paternalistico, da tutta la sinistra, in particolare comunista e segnò un primo momento di rottura che avrebbe avuto delle conseguenze molto profonde, anche perché trovò ascolto in significative minoranze che avrebbero esercitato una grande influenza sulla nascita dei movimenti di contestazione nel cuore delle metropoli occidentali. Il testo, infatti, ebbe adesioni entusiaste da parte di Sartre e Simone de Beauvoir, in Italia da Giovanni Pirelli e sempre a Parigi da parte del gruppo di intellettuali che diedero vita alla rivista Partisans.

Seconda questione: la lingua. Secondo Fanon, il linguaggio assume un ruolo importante nella formazione di una coscienza e di una consapevolezza individuali, quindi esprimersi in una lingua (il francese nel suo caso) non significa semplicemente usare un mezzo, ma introiettare una cultura, che nel caso in questione, in particolare in quegli anni, comprendeva l’identificazione del nero come simbolo del male. Questi valori della cultura dominante, quando vengono assimilati e interiorizzati, creano una frattura fra la coscienza, la consapevolezza dell’uomo di colore e il suo corpo, e ciò produce alienazione. Quest’ultima, per Fanon, non riguarda solo il processo produttivo e la collocazione oggettiva del lavoratore nella dinamica dei rapporti sociali. La lingua per Fanon è una struttura, non un riflesso sovrastrutturale e genericamente culturale, ma una struttura che fonda l’identità. Le stesse categorie di bianco e nero sono inscritte in un contesto che non è affatto neutro, ma basato sulla negazione del nero, quindi su una forma di razzismo che può essere più o meno esplicito ma che esiste sotto traccia anche quando non è dichiarato. Fanon è stato fortemente criticato nei gender studies e nella ricerca femminista di studi postcoloniali per la sua convinzione che le donne nere fossero un supporto alla colonizzazione, alla cui oppressione Fanon non dedicò altrettanta lungimiranza quanto ne aveva dedicata invece alla oppressione dell’uomo nero. Tuttavia, non si può negare che gli stessi studi post coloniali in senso lato, siano assai

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debitori alla sua analisi e al suo pensiero. Dobbiamo poi considerare che Fanon è morto giovanissimo (34 anni), nel pieno di una evoluzione ancora in atto del suo pensiero. La studiosa femminista Judith Butler nel testo Questioni di genere, riconosce l’importanza del pensiero di Fanon anche per il femminismo. Citando Pelle nera e maschere bianche, di Fanon, afferma la Butler: “L’ideale normativo del corpo come situazione e al tempo stesso come strumento, viene accolto sia da de Beauvoir per quanto riguarda il genere, sia da Franz Fanon per quanto riguarda la razza….” concludendo che il corpo in quanto tale diventa strumento di libertà.

Terza questione. Cito una frase lapidaria di Fanon stesso: “Per il colonizzato, l’obiettività è sempre diretta contro di lui.” Sta parlando della psichiatria francese di quegli anni, ma un’affermazione come questa anticipa un altro dei temi forti del ’68 europeo e cioè la non neutralità delle scienze e delle loro procedure, in particolare delle scienze umane. Quando prima affermavo che la figura si Fanon non è scindibile, mi riferivo proprio a questo e mi vengono in mente tre figure smaglianti secondo me di quegli anni in Italia: Giulio Maccaccaro, Laura Conti ed Ercole Ferrario, uomini e donne che hanno aperto la stagione di riviste e ricerche a cavallo fra scienza e politica che daranno impulso al movimento verde italiano che nelle sue origini non aveva nulla da invidiare dagli omologhi europei, specialmente tedeschi.

L’attualità del pensiero di Fanon va considerata a mio modo di vedere sotto tre aspetti. Il primo riguarda il titolo del suo libro più famoso e che, a cinquant’anni dal sua pubblicazione, appare addirittura profetico. I dannati e le dannate della terra esistono ancora, anche se i processi non sono univoci: in America Latina, per esempio, è in atto una seconda ondata di lotte di liberazione che si estrinseca in una originale relazione fra movimenti, governi e organismi di cooperazione economica: la stessa esistenza del Brics e il ruolo sempre più marcato che esso ha sullo scenario mondiale, è il segno che non ci sono soltanto processi di neocolonialismo in atto, ma che il panorama è molto più sfaccettato e che, strategicamente, l’occidente capitalistico ha meno potere di quanto ne avesse negli ’60 e per questo reagisce convulsamente con l’unica arma che possiede: quella della supremazia militare, della guerra ortodossa e non, della creazione di fasce del caos ovunque

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e prima di tutto in Medio Oriente, anche se con sempre maggiori difficoltà e rotture interne come abbiamo visto recentemente con la questione siriana. Il fenomeno che neppure Fanon avrebbe forse previsto è semmai un altro: i dannati e le dannate della terra tornano ad esistere anche nel mondo che Fanon avrebbe definito bianco: la generazione dei devastati dalle droghe, dei precari a vita senza futuro, è oggi presente nelle metropoli occidentali ed è sempre meno composta da extracomunitari che vengono qui perché noi li abbiamo invasi, o perché fuggono dalle guerre provocate dall’occidente, ma anche di popolazione locale autoctona.

Il secondo aspetto è ancor più importante. Sempre dall’America Latina ci viene il monito che un approccio solo classista ai problemi odierni è più che limitativo, anzi va radicalmente superato: sia perché non tiene conto delle questioni di genere, sia perché non considera la questione dei popoli originari della terra e delle loro culture come altrettanto fondante. La considerazione di Fanon trova nello sviluppo dei movimenti in America Latina una puntuale conferma; non tanto (o non solo) perché abbiano trovato una ispirazione diretta nel suo pensiero, ma perché è vistosa ed evidente la presenza dell’elemento indigeno in tutto

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il continente. La stessa fisionomia di presidenti come Hugo Chavez o Evo Morales indica quanto sia importante la questione indigenista in quel continente.

Terzo motivo: ancora sulla non neutralità delle scienze, un tema che abbiamo abbandonato e che oggi torna di drammatica attualità. Per Fanon e qui cito anche una articolo che era apparso sul manifesto qualche mese fa, “Ogni analisi culturale e politica della realtà, ogni enunciato, presuppone un posizionamento, una scelta precisa, uno schieramento. Fanon fu molto chiaro su questo punto: a nulla servono i discorsi astratti sull’uomo, sull’umanità – come quelli tipici della tradizione liberal-democratica occidentale o della fenomenologia esistenziale europea di Sartre, Freud e Merleau-Ponty – se ciò che abbiamo di fronte non è una condizione umana comune, ma un mondo gerarchicamente diviso…” La gerarchie di razza , di genere e di classe sono ancora tutte qui nel cuore dell’Europa odierna, nella combinazione di capitalismo e razzismo.

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Franco Romanò

Scrittore, critico letterario e poeta, è vicepresidente della Società di Psicoanalisi Critica. Ha pubblicato romanzi, poesie e saggi critici su varie riviste specializzate. Attualmente è condirettore della rivista “Il cavallo di Cavalcanti”.
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